C’è un’emergenza da affrontare che è quella del supporto psicologico a giovani e giovanissimi in primis intervenendo nelle scuole: annunciando il nuovo ebook DIGITALE DIFFUSO dopo ‘Generazioni a Confronto‘ Net Reputation vuole dare il suo contributo anticipando degli interventi di esperti del settore.
Dopo ‘Generazioni a Confronto’ ci apprestiamo ad auto-produrre un nuovo ebook-audio-attivo titolato RADIO DIFFUSA ‘sulle 3D del Digitale: Dipendenze Disinformazione Distrazione’ con interventi di esperti del settore (ospitati nella nostra iniziativa RADIO DIFFUSA) …nessun dorma!
Non ci possiamo, come società, permettere il lusso di non prepararsi adeguatamente alla riapertura dell’anno scolastico e per questo ospitiamo, grazie all’impegno ed all’interessamento della giornalista Mirella Castigli, due interventi molto qualificati che suggeriscano con forza l’esigenza di predisporre dei supporti psicologici ed un approccio ragionato verso la DAD – come recentemente discusso su ‘Radio Diffusa’ – per non ritrovarsi a gestire, di nuovo, una situazione in emergenza.
VincEnMarco
Introduzione agli interventi degli esperti a cura di Mirella Castigli
Le vite sospese dei ragazzi nell’anno della pandemia. Le proposte di psicologi e psicoterapeuti per tornare a vivere
L’Art. 34 della Costituzione italiana afferma che la scuola è aperta a tutti.
Ma nell’anno della pandemia, dal primo lockdown nel marzo 2020, le scuole sono state più chiuse che aperte, delegando l’insegnamento alla Didattica a distanza (DAD), una modalità che può essere svolta da remoto, permettendo a studentesse e studenti di partecipare alle lezioni quotidiane via computer o tablet o smartphone dalle proprie camerette (o per i
più fortunati dalla terrazza di casa, dal giardino o – rimarrà nella memoria collettiva l’immagine, ritwittate dai giornali dell’occidente – della bambina in mezzo alle sue caprette nelle valli bergamasche…).
La DAD – o meglio la didattica mista (o blended) – potrebbe rappresentare un modo innovativo per fare scuola, soprattutto in grado di contrastare l’odioso fenomeno dell’abbandono scolastico (i NEET, i ragazzi che non vanno né a scuola né lavorano, una piaga italiana e del Sud Europa) e di aggiornare la didattica nell’era delle tecnologie, ma purtroppo in Italia, nonostante l’enorme impegno profuso dagli insegnanti, non è riuscita a convincere delle sue potenzialità, ed è rimasto un surrogato per riempire le ore di tanti ragazzi nelle lunghe settimane delle scuole chiuse.
Riaprire le scuole in sicurezza si può.
Servirebbero: sistemi di ventilazione meccanica e di purificazione delle aule, un distanziamento di due metri, tracciamento efficace (ciò che è saltato fin dal termine del primo lockdown a inizio maggio 2020), DPI adeguati (mascherine FPP2 e non le chirurgiche regalate dallo Stato agli studenti).
Ma nessun Ministro dell’Istruzione ha mai garantito tali misure di sicurezza, e dunque le scuole rimangono chiuse in zona rossa e, anche quando riaprono, le classi ritornano in quarantena al primo contagio.
Sia chiaro: sbagliano gli “estremisti anti DAD” che non hanno mai proposto soluzioni che consentano il rispetto del diritto alla salute (i ragazzi infetti sono un veicolo di contagio sia per i docenti che per le famiglie a casa); ma, sicuramente, soffrono le nostre ragazze e i ragazzi rinchiusi nelle camerette (quando hanno la fortuna di possederne una propria e di non doverla condividere coi fratelli o addirittura non dormono su divani-letto in salotto, senza godere di uno spazio privato in cui poter seguire la DAD in pace).
Parto dalla DAD perché il diritto allo studio è fondamentale alla crescita dei nostri studenti che in quel luogo fisico che è la Scuola imparano non solo nozioni e concetti utili alla loro formazione e al loro bagaglio culturale, ma è soprattutto il luogo in cui imparano a percepirsi come parte di una comunità, in cui il confronto alla pari coi coetanei diventa un tassello fondamentale per costruire relazioni umane e infine il luogo in cui si sperimenta la propria individualità nella collettività, insomma l’inizio del nostro percorso di essere umani come “animali sociali”.
E, negli anni di sviluppo e crescita, un periodo così lungo “perso” di scuola potrebbe avere impatti sociali e personali, a livello psichico, di cui si hanno, a tanti mesi dal primo lockdown, i primi dati.
Dal mese di ottobre 2020 ad aprile 2021 si è registrato un incremento dei tentativi di suicidio ed autolesionismo del 30 per cento rispetto agli precedenti. Numeri che fanno male al cuore di tutti noi e gridano vendetta.
Per molti, forse troppi ragazzi, la scuola, supporto educativo e sociale ineguagliabile, rappresenta anche l’unico luogo in cui aprire un dialogo aperto e franco con adulti (i docenti), in quanto le famiglie, distratte dal lavoro e dalla crisi economica, non sempre ascoltano i ragazzi, i loro disagi, i loro successi o fallimenti, le famiglie non sempre tengono aperto il dialogo con i figli adolescenti.
Per molti ragazzi, la scuola è anche l’unico luogo in cui ricevono un pasto completo ed adeguato dal punto di vista della piramide alimentare, perché a casa non sempre si mangia in maniera equilibrata o mancano addirittura cibi essenziali per la crescita, a causa di problemi economici o di altra natura.
Arriva infatti dal Consiglio Nazionale degli Psicologi l’allarme sulla tenuta della salute mentale delle nostre ragazze e ragazzi, privati del contatto con i propri coetanei non solo a scuola, ma anche nello sport e nelle attività ludiche ravvicinate.
Privati della libertà, con le loro vite sospese – pericolosamente – nel vuoto, fra sogni e bisogni, i nostri figli hanno trascorso un anno che a nessuna generazione precedente è toccato mai vivere.
Neanche in tempo di guerra.
Forse noi adulti non abbiamo saputo raccontare ai figli e ai nipoti che questa difficile e subdola pandemia, che nel mondo continua a mietere vittime (milioni nel mondo, oltre 129mila in Italia mentre scrivo), dovrebbe diventare l’occasione per rivedere le priorità:
- imparare che un libro, un concerto online, un film, uno spettacolo teatrale in streaming sono momenti di condivisione e crescita, la lettura è una delle nostre migliori amiche;
- imparare una nuova lingua o a suonare un nuovo strumento musicale, magari in un corso online con altri coetanei, sono un lusso che accompagnerà i momenti felici della nostra vita futura;
- imparare che in quest’anno “perduto”, in cui abbiamo avuto fin troppo tempo per noi, avremmo potuto affrontare sfide come le Olimpiadi di Matematica e Fisica per scoprire magari attitudini che credevamo di non riuscire a coltivare; che questo tempo dilatato all’infinito potrebbe servire per guardarsi dentro, fare introspezioni e lavorare su se stessi, e magari apprezzare i legami affettivi con le famiglie, mettere via lo smartphone e dare finalmente senso allo stare insieme, e anche contattare con mezzi diversi gli amici più cari e perfino scoprirne di nuovi, stranieri, in un gaming online in sicurezza. Finite le vaccinazioni, torneremo alla normalità.
Ma come torneremo? E come torneranno i nostri studenti? La parola passa agli esperti.
Intervento di Fausto Petrini
Fausto Petrini, psicologo sociale e di comunità, è dottore di ricerca e psicoterapeuta in formazione presso la Società Italiana di Psicosintesi Terapeutica. Ricopre un incarico per la Società della Salute Empolese Valdarno Valdelsa nella prevenzione e nell’intervento di comunità contro il gioco d’azzardo patologico e svolge attività clinica nel campo delle dipendenze e del supporto motivazionale. Dal 2010 ha collaborato con il Dipartimento di Psicologia di UNIFI svolgendo incarichi come ricercatore e come Professore a contratto. È stato co-progettista e formatore del progetto “Toscana da ragazzi – laboratori sulla resilienza”, che ha visto la partecipazione dei professori di 56 scuole superiori della Regione coinvolti sul tema del benessere e della convivenza nella comunità scolastica. Dal 2009 supporta iniziative di auto-aiuto come conduttore, formatore e ricercatore.
1) In questo nostro e-book parliamo delle Tre D del Digitale nell’anno della pandemia: dipendenze, distrazioni e didattica a distanza (DAD). Tre D che rischiano di trasformare gli adolescenti occidentali in ragazzi eccessivamente connessi, a un passo dal diventare “gli Hikikomori post-Covid”? E se questo è un rischio non troppo remoto, quali consigli possiamo offrire ai ragazzi e alle famiglie preoccupate dal rischio delle dipendenze?
Una premessa: ho preferito affrontare i temi proposti in questo contributo più attraverso il filtro del buon senso e della “sensibilità personale” (comunque mediata dal mio essere un professionista), piuttosto che usare il registro del ricercatore e dello psicoterapeuta.
Ci sono in questo periodo molti esperti e molte fonti ben più qualificate di chi scrive, e del resto linee guida e raccomandazioni sono messe a disposizione dalle organizzazioni più autorevoli.
Preferisco quindi offrire un punto di vista personale fatto di molti dubbi e talvolta di qualche provvisoria risposta, emersa nel confronto tra la mia identità di studioso e la parte di me che, come tutti, sta facendo i conti giorno dopo giorno con la nuova realtà che si sta delineando.
Per quanto riguarda quindi dati, raccomandazioni e analisi oggettive rimando ad alcuni riferimenti di fonte accertata che metterò sotto forma di link all’interno del testo.
Da quando è iniziata la pandemia non ho più avuto la fortuna di lavorare direttamente a contatto con gruppi di ragazzi, né ho seguito da vicino progetti che mi abbiano messo direttamente a contatto con gli insegnanti.
Alcuni pazienti adolescenti che ho seguito hanno però manifestato le proprie rimostranze per un ritorno ad una convivenza stretta in famiglia, cosa a cui non erano più (o non erano mai stati) abituati e di cui ravvisano molto più i disagi che i vantaggi.
Contemporaneamente, ho sentito altri ragazzi esprimere il desiderio che la scuola non riprendesse, riscontrando molti aspetti positivi della DAD e dello stare a casa senza le costrizioni legate all’ambiente scolastico. Se non li avessi conosciuti nella vita privata avrei potuto immaginare questa considerazione dettata da pigrizia, ma sapevo di non avere davanti degli scansafatiche.
Sono osservazioni che inizialmente mi hanno sorpreso, esempi che certo non devono essere elevati al rango di statistiche, ma sufficienti a mettere in discussione una parte della narrazione che ci viene spesso proposta rispetto al tema “giovani e covid“.
Sorprendono perché, a ben guardare, lasciano intuire la presenza di problemi preesistenti in un sistema educativo fragile, non solo a livello scolastico.
Colpiscono per la disconferma di un cliché, uno dei tanti, che vedrebbe i giovani desiderosi di tornare ai banchi come effetto del loro impegno nella difesa del diritto allo studio e al contatto sociale. Un cliché appunto, che corriamo il rischio di fare nostro approcciandosi al mondo giovanile tramite generalizzazioni, talvolta banalizzazioni.
Parlando di giovani e realtà digitale è molto facile scivolare in stereotipi volti ad inquadrare una realtà in modo univoco e scarsamente sfaccettato, in cui le difficoltà di comprensione da parte degli adulti si tramutano in semplificazioni, talvolta deresponsabilizzanti per gli adulti stessi.
Ancor peggio, si corre il rischio di sottostimare le incredibili risorse positive e potenzialità di cui i giovani sono portatori, non solo sottovalutandole, ma, indirettamente, favorendo in loro un atteggiamento di impotenza appresa.
Il rischio che intravedo, prima ancora di parlare di COVID, è legato al nostro comprensibile desiderio di tutelare i più giovani, che però spesso si manifesta con l’attenzione costante a ciò che stiamo (e stanno) perdendo, alle conseguenze negative degli eventi in atto, rischiando di indurci in facili catastrofismi, o peggio, di innescare insidiose profezie in grado di auto-avverarsi. In un momento come quello attuale, per quanto difficile, trovo veramente importante e preziosa la volontà di saper cogliere anche le opportunità generate dal cambiamento.
Partiamo da una considerazione che spero non sembrerà provocatoria: se da una parte il lockdown e l’isolamento sociale sono le uniche misure certamente efficaci contro le epidemie, e questo è stato storicamente valido in ogni epoca, in nessuna delle precedenti occasioni bambini e ragazzi avevano avuto l’occasione di mantenere dei contatti sociali ed un’attività didattica (per quanto surrogata) come oggi.
Appare quindi chiaro come la diffusione della tecnologia rappresenti in primo luogo un enorme vantaggio per i più, e caso mai un mezzo, più che un problema di per sé.
Mettiamo quindi a fuoco questa premessa in modo netto: proprio per le enormi potenzialità che la tecnologia offre, anche le vulnerabilità del nostro sistema sociale ed educativo vengono enfatizzate attraverso essa, mettendo a nudo problemi con radici più profonde.
Per la verità i dati evidenziavano già da prima del Covid la crescita non trascurabile di nuovi fenomeni legati all’uso delle tecnologie:
il cyberbullismo già ben noto, ma anche il sexting, il revenge porn (qui un fumetto diffuso dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia sul tema) e quella forma di ritiro sociale ad alcuni noto come “hikikomori”, in cui le relazioni sono quasi esclusivamente mediate da canali virtuali.
Fenomeni che danno conto delle modalità distorte con cui le persone (e non solo i giovani!) interpretano i rapporti interpersonali, ma anche sentimentali, al tempo dei social e di whatsapp.
Tuttavia, sarebbe semplicistico demonizzare il canale “virtuale” prescindendo dai fattori predisponenti alla base di questi fenomeni.
Lo stesso hikikomori, definizione patologica originariamente identificata in Giappone, non può facilmente essere separato da una lettura in chiave eziologica del modello familiare e comunicativo prevalente in quella cultura.
Allo stesso modo, come potremmo inquadrare il fenomeno del sexting senza considerare i messaggi sessualizzati, gli stereotipi di genere e l’idea di controllo insita nel modello distorto di rapporto amoroso che sempre più viene veicolata dalla nostra cultura?
Tutti questi modelli trovano facile propagazione attraverso le sconfinate praterie del villaggio virtuale e nella comunicazione senza filtri offerta dalla rete, tuttavia vedere l’uso di questa come causa del problema non sarebbe più corretto che identificare nella saliva e nell’aria che respiriamo la causa del virus contro cui tutti noi stiamo combattendo.
Non voglio essere frainteso:
non si vuole affatto qui sminuire la rilevanza degli enormi problemi che le persone vivono in questo momento così delicato. Al rischio concreto per la salute psicologica, all’isolamento tecnologico ed ai pericoli delle “tre D”, si aggiungono anche altri temi più esistenziali, legati alla capacità di affrontare il lutto, la malattia, l’isolamento fisico, fino a toccare limitazioni fisiologiche, come l’assenza forzata di movimento, la ricerca del piacere attraverso “paradisi artificiali” e consumi voluttuari come alcol, cibo, ecc.
Sono aspetti chiaramente preoccupanti per il futuro dei nostri giovani, ma il sottotesto che può essere letto in questa pandemia è anche aver messo in evidenza i limiti di un sistema relazionale in cui gli adulti sembrano sempre più inconsapevoli, non solo come agenti, ma anche come modelli di comportamento a cui i più giovani guardano.
Lungi dal voler assumere un inutile criticismo verso i sistemi educativi e la genitorialità ai tempi del coronavirus, occorre però capire in che direzione possa essere diretto il treno già in corsa, possibilmente usando la tecnologia a nostro vantaggio, piuttosto che opporsi al suo moto.
In un panorama in cui anche le risposte degli “esperti” possono facilmente avere segno opposto e mai coerente tra loro, dobbiamo porci prima di tutti quesiti dettati dalla logica e non basati su facili generalizzazioni. Dobbiamo ad esempio essere in grado di distinguere i fenomeni e le osservazioni in base alle varie età.
Per quanto riguarda l’età infantile è legittimo interrogarsi non solo sulle conseguenze negative, ma anche sugli apprendimenti potenziali cui i nostri figli possono andare incontro.
Quali ricadute a lungo termine possono verificarsi nel far approcciare i bambini a processi sistematici di comunicazione virtuale già in questa età?
È scontato dire che l’accesso ai social ed al lavoro di gruppo online non dovrebbe rappresentare una sostituzione delle relazioni umane e dei tradizionali metodi di collaborazione, ma possiamo addirittura considerare l’idea che apprendere queste abilità già in età infantile possa rappresentare l’occasione per sviluppare degli “anticorpi” verso le principali distorsioni legate all’uso di questi strumenti? Non è forse questa l’età giusta per insegnare loro a distinguere le fonti, a non cadere nei tranelli logici cui gli adulti stessi, carenti di queste contromisure, si stanno mostrando vulnerabili? E quindi quali “momenti”, quali metodologie educative la scuola e le famiglie possono offrire perché questo si realizzi? In che percentuale, infine, i bambini stanno effettivamente sostituendo i normali rapporti umani con quelli virtuali, e per quanti invece questa modalità sta semplicemente affiancandosi alle altre occasioni di valorizzazione del rapporto umano in presenza?
I dati attuali possono dirci molto sui comportamenti dei bambini di oggi, ma ancora non bastano a giustificare la nostra sfiducia, né tantomeno il disfattismo che può conseguirne.
Diverso il discorso per i bambini pre-adolescenti, particolarmente sensibili, ad esempio, ai processi di gruppo e di etichettamento, alle prime esperienze di conformismo e di esclusione della diversità, che già sappiamo poter prendere la forma del cyberbullismo e della discriminazione.
Quanto questa situazione potrà rappresentare un’occasione non solo per sostenerli, ma anche per monitorarli, costringendo gli adulti stessi a cimentarsi con strumenti comunicativi troppo spesso lasciati ad una gestione incondizionata? Quanto possiamo aiutarli, come adulti, a costruire finalmente un “galateo delle buone maniere virtuali” che ancora non sembra codificato?
Come infine potremmo garantire agli adolescenti di poter liberare la propria creatività grazie a quegli strumenti che ancora guardiamo con sospetto, proteggendoli, sì, dai rischi dell’eccessiva virtualizzazione, ma seguendo con fiducia le nuove strade che essi sapranno mostrarci, in una fase in cui la capacità di impiego dei nuovi canali potrebbe rappresentare veramente un punto di svolta nell’avvio della loro attività lavorativa, della loro imprenditorialità, uscendo dalla semplice logica dell’influencer?
Molte domande e forse poche risposte, ma un filo logico comune che vede la partecipazione e la condivisione da parte degli adulti di riferimento come unica potenziale discriminante tra buoni e cattivi esiti.
Il 2020 ha forse finalmente tolto ogni alibi legato alla mancanza di tempo e di condivisione in famiglia, lasciando sul tavolo temi molto più sensibili:
- la difficoltà di creare interessi comuni,
- la complessità della comunicazione tra generazioni diverse,
- la deresponsabilizzazione e la delega verso il ruolo educativo e verso il controllo sui comportamenti quotidiani, siano essi virtuali o reali.
Da qui l’emergere di molti nuovi conflitti, di famiglie costrette a prendere atto di fenomeni prima meno evidenti, a fare i conti con un nuovo equilibrio.
Dal mio modesto punto di vista è molto difficile trarre delle raccomandazioni generiche e decontestualizzate per affrontare tutto questo: proprio a causa della complessità di cui ho cercato di dar conto ritengo inappropriato dare dei consigli come se fossero validi per ogni situazione.
Mi limiterò in questa sede a ricordare alcuni principi generali che, per quanto intuitivi, rappresentano nella mia esperienza delle vere chiavi di volta nell’intervento educativo e psicologico con i ragazzi, specie in questo periodo:
Assumere un atteggiamento positivo.
Tutti noi, in questa logorante situazione, iniziamo a preoccuparci delle probabili conseguenze a lungo termine e dei cambiamenti irreversibili che osserveremo: se da una parte è comprensibile ed eticamente apprezzabile dedicare ai più giovani la nostra attenzione, le nostre preoccupazioni, è altresì necessario trasmettere fiducia offrendo loro il nostro esempio.
Affrontare il momento difficile (ma non eterno) senza alimentare l’ansia oltre il necessario e mostrare la nostra capacità di reagire e trasformarci è il miglior canale attraverso cui esercitare il nostro ruolo di adulti.
Solo una volta che, come genitori, ci saremo assunti la responsabilità di vedere sia opportunità che rischi della nuova situazione, con atteggiamento equanime e talvolta anche umile (perché ci sono cose in cui i nostri figli sono più competenti di noi, anche se non più saggi), allora potremo fornire veramente un buon supporto.
Osservare senza semplificare.
Che tipo di persona e quali problemi reali affronta nostro figlio ogni giorno? Siamo in grado di non dare per scontata la sua visione del mondo e delle cose che gli stanno a cuore? E come possiamo proporci come supporto senza svalutare ciò in cui crede?
Di rado, in questo periodo, ho sentito opinioni su “i giovani” che partissero veramente dalle considerazioni dei diretti interessati, che non li considerassero una massa uniforme, ma una realtà estremamente sfaccettata e portatrice di enormi risorse che spesso siamo noi adulti a non intravedere, o a non comprendere.
Ascoltare senza la fretta di dare risposte.
Specie con i bambini è molto importante saper creare uno spazio di dialogo che rispetti i loro tempi nel trovare un nome ed una spiegazione a ciò che provano, specie alle paure ed ai problemi.
Spesso noi adulti pensiamo che il nostro compito sia quello di dare “le risposte”, senza renderci conto che quello che i bambini chiedono veramente è un momento in cui essere aiutati ad esprimersi.
È importante creare uno spazio di silenzio “pieno”, in cui il nostro ascolto è prioritario rispetto alla nostra percezione di dover dare le risposte, accogliendo fino in fondo domande e punti di vista, ed anzi aiutandoli ad emergere. Si tratta di un’arte che ciascun genitore troverà utilissima, anche quando i figli saranno più grandi.
Assumersi la responsabilità educativa (senza delegarla in bianco alla scuola).
Il sistema funziona se ciascuno fa la sua parte: assumiamo la responsabilità di quello che possiamo fare e correggiamo ciò che non va più bene. Abbiamo in questa fase una nuova concezione del tempo e dello spazio che può aiutarci a cambiare paradigma, facciamolo! È un’occasione che non può essere sprecata.
Preservare le relazioni con l’altro sesso (e l’amore).
È intuitivo vedere in questa dimensione quella più legata al corpo ed alla “presenza fisica” dell’altro.
Una tendenza già in corso prima della pandemia era quella della virtualizzazione delle relazioni e della sessualità. È prevedibile che con la pandemia possiamo involontariamente colludere con questa tendenza, scoraggiando magari visite e frequentazioni sentimentali, ma contribuendo ad allontanare ancor di più la vita sessuale e sentimentale “fantasticata” dalle reali esperienze che iniziano a germogliare dall’età puberale.
È necessario quindi preservare e tutelare, in modo ragionato, le possibilità di stabilire un contatto fisico, come anche le prime relazioni affettive e sentimentali, valutando invece l’opportunità di stabilire un dialogo aperto sull’uso della tecnologia nel campo dell’esplorazione della sessualità (vedi oltre).
Monitorare la gestione del tempo libero (controllando l’uso degli strumenti informatici).
Considerare le potenzialità dei giovani e del loro rapporto con le tecnologie non significa rinunciare al proprio ruolo di indirizzo e controllo: riconoscere autonomia di gestione non significa disinteressarsi di come viene trascorso il tempo libero, specie in compagnia delle periferiche tecnologiche.
Questo è un campo in cui vale la pena manifestare apertamente ai figli la disponibilità ad un dialogo aperto, ma anche la propria volontà di controllo, soprattutto rispetto a due temi:
- Il rischio di accesso precoce alla pornografia:
attualmente la diffusione della pornografia sta conoscendo una facilità di fruizione mai conosciuta in precedenza.
Le conseguenze sono già note e si concretizzano in modelli distorti di sessualità, stereotipati o estremizzati, talvolta violenti.
Un problema che mi sono spesso trovato ad osservare è l’ingenuità che molti genitori ancora hanno nei confronti di questi temi: la non conoscenza dei rischi, la dichiarata “fiducia” che spesso si traduce in mancanza assoluta di controllo.I genitori possono esercitare, anche solo con piccole attenzioni, questa funzione: adottando filtri informatici, lasciando libero accesso ai computer solo in postazioni visibili della casa, chiedendo di utilizzare password condivise, esplicitando la propria intenzione di farsi garanti della sicurezza informatica dei figli. - I rischi legati alla dipendenza da videogames e da gioco d’azzardo online:
valgono le stesse considerazioni sulla necessità di controllo sopra elencate.
I dati ci dicono che l’età in cui si inizia a giocare d’azzardo sta calando drasticamente, complice anche la promozione e normalizzazione del comportamento tramite la pubblicità.
È fondamentale in questo caso focalizzare l’attenzione non solo sul controllo, ma sulla proposta di alternative positive e stimolanti sull’occupazione del tempo libero.
Troppo spesso si pensa a proibire senza curarsi di quali proposte alternative stiamo lasciando ai nostri figli.
Concludo suggerendo di nuovo ai genitori ed alle famiglie è di non mancare questa occasione incredibile per recuperare del tempo e delle nuove modalità di relazionarsi con i propri figli: coinvolgendoli nella gestione quotidiana della casa, concordando dei meccanismi di controllo rispettosi dei reciproci diritti, rivedendo i meccanismi di delega alle altre istituzioni educative, fiduciosi di poter trasmettere un modello rinnovato e funzionante, anche se imperfetto, delle relazioni umane.
2) Siamo partiti dai giovani, perché le scuole chiuse sono sinonimo di “vite sospese”. Ma dipendenze e Distrazioni colpiscono tutte le fasce d’età. Quali sono le conseguenze psichiche che dobbiamo aspettarci dal prolungato lockdown per motivi sanitari? La politica dovrebbe già programmare qualcosa per far fronte a quest’onda che monta da lontano, ed, eventualmente, che cosa?
DI fronte a qualsiasi esperienza traumatica o stressante sappiamo ormai che non tutte le persone reagiscono allo stesso modo.
Sono inoltre sempre di più gli studi che si concentrano non solo sui deficit conseguenti al trauma, ma anche sulla capacità di trarre risorse, apprendimenti e miglioramenti in risposta alle avversità, incentrandosi sull’ormai noto costrutto psicologico di resilienza.
In realtà conosciamo già bene le conseguenze di eventi potenzialmente traumatici a livello collettivo, si pensi ad esempio all’esperienza di guerra, o alla reazione a disastri naturali come terremoti e inondazioni.
Fatti i dovuti distinguo, ciò che c’è di diverso oggi è che il tema ha colpito non più una minoranza, ma l’intera popolazione e soprattutto l’opinione pubblica, con la percezione per alcuni di essere di fronte ad un evento psicologicamente soverchiante e dalle proporzioni immani.
Questo è in parte vero: la portata globale dell’evento rappresenta per alcune categorie di persone con sintomi psichici una aggravante di difficile gestione. A differenza delle altre tipologie di evento disastroso è però possibile pensare ad un ritorno all’equilibrio in modo relativamente più semplice, anche se si tratterà di un equilibrio diverso. Con questo non si vuole sminuire la portata di quanto sta accadendo, tuttavia da un punto di vista psicologico saper vedere in modo ottimistico lo scenario oltre il problema (anche grazie al supporto dello psicologo, dello psicoterapeuta e delle specifiche tecniche che possono insegnarci ad usare) non deve essere percepito come un tabù.
È ancora possibile pensare senza cinismo ai possibili risvolti positivi senza risultare irrealistici: alle enormi conseguenze sul piano macroscopico non si associano necessariamente previsioni negative per il singolo.
Dobbiamo forse mettere a fuoco la differenza tra due distinti processi:
uno che collega direttamente la pandemia con l’incremento delle sintomatologie psicopatologiche (ansia di malattia, effetti traumatici legati al lutto, ansia sociale, ecc.) e, dall’altra parte, quello legato ad una perdita del precedente equilibrio personale, familiare e sociale.
Quest’ ultimo si manifesta in modo aspecifico e generalizzato, con reazioni di stress, ansia, e con risvolti comportamentali e comunicativi, a cui può far seguito una fase di riadattamento.
Mentre nel primo caso può essere necessario un intervento psicoterapeutico vero e proprio, nel secondo si può guardare con fiducia all’ipotesi di ristabilire un funzionamento migliore del precedente. Anche in questo caso l’intervento dello psicologo può essere prezioso per motivare, mettere a fuoco e mantenere i cambiamenti positivi in atto.
Del resto questo è il principio fondamentale del concetto di resilienza sopra richiamato: come può un grave accadimento diventare, per le persone che lo subiscono, un’occasione di crescita, di maturazione e di incremento delle proprie risorse?
Faccio un esempio banale:
nel mio condominio prima della pandemia le persone non si conoscevano quasi per niente e i contatti si limitavano ad un cenno di saluto sulle scale.
Nel corso del primo lockdown tutti hanno fatto tesoro delle poche occasioni sociali disponibili, sfruttando anche la semplice chiacchierata dal terrazzo per sentirsi un po’ meno soli.
È vero, in questa seconda ondata non si sono create le stesse occasioni, anche perché ciascuno dei condomini nel frattempo ha ristrutturato un proprio sistema autonomo di convivenza con il virus ed ha trovato quelle soluzioni di compromesso che gli consentono di avere un minimo di frequentazione delle proprie relazioni precedenti.
Ciò però non significa che il capitale sociale costruito all’interno del condominio sia adesso perduto: per adesso si è manifestato solamente con qualche piccolo scambio di doni a Natale, ma potrà mostrare un più evidente valore in future occasioni, ad esempio alla prossima assemblea.
In altre parole, non credo che al momento siamo predisposti mentalmente a saper riconoscere quei piccoli cambiamenti positivi che sotto traccia potrebbero essersi verificati a fianco dei più evidenti problemi a cui stiamo cercando di reagire.
Ma avere questo atteggiamento, saperlo adottare e mostrare al prossimo credo sia un potente antidoto alle conseguenze psicologiche negative a cui molti di noi stanno andando incontro.
Non si tratta di un semplice esercizio di ottimismo, ma di un modo per alimentare la ricerca oggettiva sulle conseguenze, favorendo la responsabilizzazione, la pensabilità positiva e, dove necessario, la guarigione.
Un atto scientifico quindi, perché frutto di onestà intellettuale, un atto terapeutico, perché orientato a promuovere un atteggiamento psicologicamente positivo da parte della collettività, ma anche un atto politico, perché vincola tutti noi e chi ci rappresenta ad assicurarsi che le risorse positive che inaspettatamente si stanno manifestando vengano stabilmente messe a frutto.
Su questo piano potrà sembrare fazioso da parte di chi scrive un appello alla maggiore diffusione ed accessibilità dei servizi offerti da psicologi e psicoterapeuti, tuttavia, mentre dalla popolazione arriva sempre più forte la domanda di salute in questo campo, non assistiamo ancora ad una adeguata valorizzazione della disciplina all’interno dei servizi sanitari.
Al superamento già in atto nell’opinione pubblica dello stereotipo che vede nello psicologo il “curante della follia” non corrisponde un’adeguata e automatica inclusione nei percorsi di salute convenzionali.
Ufficialmente lo psicologo è rientrato pienamente tra le professioni sanitarie (e quindi il suo intervento nei Livelli Essenziali di Assistenza) solo dal dicembre 2017, gli effetti di questa riforma impiegheranno molto ad riflettersi sull’intero sistema, mentre progetti fondamentali come quello dello psicologo di base o dello psicologo in farmacia non sembrano ancora trovare piena realizzazione. Un evento così impattante sulla salute psicologica generale come la pandemia ci sta mostrando come questa professionalità rappresenti non solo una risposta in caso di patologia mentale e psicologica, ma anche un supporto nell’affrontare le sfide di tutti i giorni. A tal proposito segnalo l’ottima pagina divulgativa predisposta dal Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi. In cui sono evidenziati i tipi di intervento e le modalità di accesso sia in campo pubblico che privato.
In aggiunta a questo, la politica sanitaria potrebbe avere un ruolo fondamentale nel promuovere un altro fondamentale strumento di empowerment, a bassissimo costo e dall’efficacia ormai comprovata. Mi riferisco ai gruppi di auto-mutuo-aiuto, una forma di supporto a-professionale sottovalutata e sconosciuta ai più, ma che è ormai studiata e codificata secondo una metodologia ed un prassi che ha mostrato enormi potenzialità.
I gruppi di auto-aiuto rappresentano all’estero (ma sottotraccia anche in Italia) uno strumento fondamentale e complementare alla salute dei cittadini, fornendo un patrimonio di supporto informativo, emotivo e pratico a tutte le persone che fronteggiano un problema comune.
Pensando alla pandemia, stanno già nascendo in forma virtuale nuovi gruppi per il supporto nell’affrontare il lutto, i postumi della malattia, l’isolamento sociale.
Mai come in questo momento anche poche risorse potrebbero essere sufficienti per supportare la crescita di questa nuova cultura, sempre nel rispetto delle peculiarità della metodologia.
3) Durante il primo lockdown le persone danzavano e cantavano in terrazza, applaudivano medici ed infermieri in corsia; durante la seconda quarantena il clima si è invece indurito, fatalmente incupito: le persone si sono rese conto del rischio di perdere il lavoro, di veder ridimensionato il proprio giro d’affari o di dover abbandonare lo stile di vita precedente alla pandemia.
Si respirano rabbia e frustrazione, anche al di là della polarizzazione politica. Oltre al fenomeno dei NoVax e dei negazionisti, assistiamo alla proliferazione di Fake News, durante la più grande vaccinazione di massa di sempre. Siamo in grado di affrontare, dal punto di vista cognitivo, questi fenomeni?
Ci sono “antidoti” contro quello che intravediamo addensarsi all’orizzonte?
Ritengo che alla base delle differenze di approccio della popolazione tra prima e seconda ondata ci siano non solo aspetti psicologici, ma anche oggettivi.
Il primo lockdown aveva il sapore, nell’immaginario collettivo, dell’evento straordinario ed irripetibile, guardato con preoccupazione, ma anche forse con curiosità, almeno da coloro che non stavano subendo le conseguenze peggiori.
L’idea che la nostra società potesse cambiare pelle a causa di un evento così repentino e globale ha lasciato intravvedere a molti anche delle potenzialità (effettivamente esistenti!) della crisi: le videochiamate di gruppo con i familiari, il telelavoro, la riduzione dell’inquinamento: scenari precedentemente impensabili.
Sono trasformazioni ipoteticamente stabili che potevano fare da contraltare alla gravità dei disagi subiti e questo molti lo hanno percepito.
Ma la seconda ondata ha aperto la strada alla possibilità che fossimo di fronte ad una serie, più che ad un evento isolato, alla ripetizione di un copione di limitazioni già noto che per altro si era rivelato inefficace, mentre vecchie debolezze del sistema tornavano alla ribalta, generalizzando una sensazione di bassa autoefficacia collettiva, specie dopo i molti i sacrifici fatti da tutta la collettività: dal “ce la possiamo fare” al “non sappiamo più come fare”.
Non sottovaluterei poi un aspetto oggettivo relativo alla stagionalità dei due eventi: può sembrare banale, ma approcciandosi all’imminente primavera, nel primo lockdown, è stato più facile immaginare palliativi alle restrizioni sociali imposteci: occasioni di socialità all’esterno, la vita sui balconi e nei giardini, la previsione di avviarsi verso l’estate con una riduzione fisiologica della malattia e una “discesa della curva” definitivamente orientata verso lo zero.
In autunno invece la prospettiva è stata fin da subito quella di una contrazione significativa e non aggirabile delle restrizioni, con la previsione quasi certa che anche le ritualità sociali legate alle feste natalizie sarebbero state pesantemente intaccate.
Ci sono infine fattori eminentemente fisiologici attraverso cui il trascorrere delle stagioni influenza direttamente il nostro sistema emotivo ed il nostro assetto psicologico.
Per questo è lecito pensare che il secondo lockdown sia avvenuto in condizioni oggettivamente peggiori rispetto al primo.
Ma attenzione: come la prima reazione sembra essere stata frutto di un’idealizzazione (ripeto: non per tutti), la generalizzata negatività attuale può essere altrettanto figlia delle particolari condizioni che stiamo vivendo: infondo, al momento della stesura di questo contributo, siamo ancora in mezzo alla seconda ondata, i numeri non sono confortanti e, anche se è partita una campagna vaccinale, sappiamo già che ci sono molte ulteriori sofferenze da sopportare.
In altre parole, la percezione di entrambi i lockdown può apparire estremizzata, anche se in due sensi opposti.
La mia riflessione, del tutto personale, è che lasciandoci travolgere dalla visione catastrofica legata alla seconda ondata rischiamo di buttare il bambino con l’acqua sporca: il dolore, le frustrazioni ed i disagi che stiamo vivendo, per quanto inediti nelle nostre vite, conservano intatta la potenzialità di diventare occasione di apprendimento profondo ed evoluzione, sia del nostro modello culturale, che del nostro funzionamento psicologico, anche se forse è presto per accorgercene.
Un esercizio di consapevolezza che può aiutarci a mettere a fuoco i benefici inaspettati è quello di prendersi dei momenti di meditazione per identificare tutti i piccoli insegnamenti, le risorse personali e collettive alle quali abbiamo attinto e grazie alle quali abbiamo potuto reagire alle difficoltà. Annotandole e aggiornando periodicamente questo bilancio potremo coglierne l’evoluzione attraverso un’ottica più consapevole.
Non voglio infine entrare in questa sede nel merito di alcuni fenomeni molto complessi come quelli alla base del negazionismo e del fenomeno “no vax”, che hanno alla base processi psicologici, come il bisogno di considerazione sociale, le distorsioni dovute alle bolle informative dei social network, i processi di influenza minoritaria, ecc.
Il ricorso alla rete come fonte principale di informazione stava già conoscendo nuove e inaspettate manifestazioni, sottoponendo l’audience a veloci evoluzioni nel modo di comunicare. Uno dei risultati sembra essere l’incapacità di cogliere gli indizi che identificano una buona fonte da una cattiva.
La conseguenza ultima può essere una sfiducia generalizzata, che spesso tende a coagularsi su pseudo-battaglie sociali francamente insostenibili dal punto di vista logico.
A prescindere dai casi più estremi, trovo che uno degli stereotipi più semplicistici cui assistiamo è quello che vede le giovani generazioni come i peggiori utilizzatori della tecnologia, scarsamente competenti nel distinguere la qualità del messaggio e quindi facili bersagli di propaganda o pubblicità.
Paradossalmente, i fatti più recenti, sia in campo politico che nei confronti della gestione del COVID, stanno mostrando come le generazioni più adulte siano altrettanto impreparate (se non peggiori) nel leggere la realtà artificiale traboccante dagli schermi di pc e cellulari.
I fatti fanno sorgere concreti dubbi su quale generazione possieda realmente gli anticorpi a queste derive, oppure ancora se il tema non sia in realtà completamente trasversale e non leggibile attraverso una rappresentazione per classi generazionali.
Le condizioni straordinarie attuali impongono, improvvisamente, una riflessione coscienziosa su questi temi: in un epoca in cui anche l’infodemia è parte del problema sociale che stiamo affrontando, l’unico suggerimento possibile è quello di selezionare le fonti più qualificate e affidabili, ma non solo, di verificare l’effettiva corretta attribuzione di un’informazione alla sua fonte, risalendo ai siti ed ai documenti ufficiali, insegnando infine a farlo a tutte le persone che ci sono care.
Per quanto riguarda il covid, ad esempio, suggerisco le pagine dedicate dall’Istituto Superiore di Sanità a bufale e fake news sul tema, in cui possono essere rintracciate le notizie e le raccomandazioni più affidabili ed aggiornate.
DIPENDENZE DIGITALI: NESSUN DORMA SECONDA PARTE
Intervista di Mirella Castigli