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Intervista di Mirella Castigli al docente di conservatorio Manuela Bisceglie

Melissa Hogan, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons

Melissa Hogan, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons

Mirella Castigli (giornalista pubblicista): Il 2020 è l’anno delle vite sospese dei nostri ragazzi. Naturalmente, a causa della pandemia, del necessario lockdown e del rispetto delle zone rosse. La scuola, i conservatori, le accademie e le università hanno cercato di allestire sistemi di Didattica A Distanza (DAD), per consentire agli studenti di seguire le lezioni senza rimanere indietro. Professoressa, come ha ritrovato i suoi studenti dopo mesi di DAD? Di quali cose hanno più sentito la mancanza, secondo lei? Hanno perso competenze in termini di creatività e indipendenza, o invece la DAD ha comunque colmato lacune?

Manuela Bisceglie (insegnanti di Canto al Conservatorio di Milano):

A marzo dell’anno scorso [2020], quando giocoforza si è dovuto ricorrere alla DAD, io per prima ero molto perplessa riguardo a una modalità di insegnamento mai sperimentata prima.

In particolare, questa modalità presentava a mio avviso delle criticità per l’insegnamento dello “strumento-canto” per svariati motivi, non ultimo il fatto che la lezione di canto lirico prevede la presenza del pianista accompagnatore, il quale appunto accompagna l’allievo durante l’esecuzione delle arie e dei brani solistici e d’insieme.

La didattica online (io preferisco definirla così, perché il termine “a distanza” evoca una distanza che di fatto non c’è o è solo spaziale: un docente e un allievo collegati attraverso un Pc non sono distanti, sono lì entrambi e condividono attraverso il mezzo informatico non solo insegnamenti, nozioni, ma anche e soprattutto emozioni) ha richiesto un grande impegno, spirito di adattamento, ingegno e volontà, da parte mia come docente e anche da parte degli allievi.

Di certo tutti avremmo preferito vederci di persona in Conservatorio, ma era chiaro a tutti che il rischio del contagio era reale e non aveva senso mettersi in pericolo: dovevamo impegnarci per volgere in positivo l’esperienza della quarantena.

Ovviamente ogni allievo ha reagito in base alla propria natura, secondo le proprie risorse emotive e intellettive, ma in generale posso dire che tutti hanno ottenuto buoni risultati e tutti hanno raggiunto gli obiettivi e competenze tecniche e musicali relative al programma di studio dell’anno frequentato.

La DAD ha funzionato nel nostro caso, forse più per una classe scolastica, probabilmente perché una classe di strumento è mediamente di 12 soli allievi e in più la lezione è singola: quindi il rapporto 1 a 1 (insegnante/allievo) favorisce comunque una comunicazione differente rispetto a ciò che avviene in lezioni collettive.

Si aggiunga che il percorso di studio del conservatorio difficilmente è vissuto dall’allievo come un “obbligo” come spesso accade per altre scuole di diverso ordine e grado, compresa l’università, che troppo spesso i giovani si trovano a frequentare, più che per interesse o passione personale, per conseguire un titolo utile a trovare lavoro, se non per compiacere la volontà delle proprie famiglie.

In genere la scelta di un percorso musicale e artistico nasce da una ferma volontà e da una passione personale; pertanto gli allievi sono mediamente molto motivati nello studio, perché quello studio li avvicina alla realizzazione delle proprie aspirazioni artistiche.

Si aggiunga inoltre che, sempre nella maggior parte dei casi, gli allievi dei corsi accademici di strumento sono quasi tutti maggiorenni e sono rarissimi i casi in cui essi non dispongano di una connessione Internet, di un computer o di altro dispositivo per seguire le lezioni online.

Di certo un docente che segue 4 o 5 classi di 30 persone con lezioni collettive ha più difficoltà nella DAD a seguire ciascun allievo, e se a questo si aggiunge che nelle scuole primarie e secondarie ci sono sicuramente in proporzione più alunni che non hanno a disposizione una connessione internet e/o dispositivi per l’accesso alla didattica online, è evidente che la DAD in questi casi crea sicuramente un pregiudizio per l’apprendimento.

Fatte queste precisazioni di carattere generale, nello specifico posso dire, per l’esperienza vissuta in prima persona, che in una situazione emergenziale, la DAD non è un fallimento, anzi!

La DAD permette di entrare nelle case degli allievi, in una sfera che nella lezione in istituto non si raggiunge e lo stesso ovviamente vale per l’allievo che “vede” il suo docente nella sua sfera domestica e non istituzionale. (Penso a tutte le lavoratrici madri come me di due bambini piccoli e alle acrobazie che siamo capaci di fare per rimanere concentrate sul nostro lavoro, mentre intorno a noi scoppia l’ennesima lotta di cuscini o l’ennesima tragedia dovuta a chi userà la macchinina di un determinato colore e chi l’altra).

Questo abbattimento forzato della parete della sfera privata ha sopperito forse all’assenza “fisica” creando comunque un rapporto meno formale e forse ha contribuito ad aumentare la fiducia reciproca.

Inoltre, il non essere legati alla disponibilità di un’aula ha inevitabilmente modificato i tempi della lezione, che non erano più solo quelli previsti dal regolamento didattico, ma sono diventati quelli di cui ciascun allievo ha avuto bisogno: con la DAD abbiamo spesso sforato i tempi, se ce n’era la necessità, sapendo che tanto eravamo tutti a casa nostra e la scuola non chiudeva. Senza parlare di tutti i video di arie ed esercitazioni che ciascun allievo mi ha mandato ad ogni ora del giorno.

Posso dire la mia classe ha lavorato tantissimo in DAD e che, sia per me come docente, e, da quello che mi hanno riportato gli allievi, anche per loro, se non ci fosse stata la DAD il lockdown sarebbe stato molto più pesante da sopportare, e non solo perché avrebbero davvero perso un anno di studio, ma anche perché rimanere chiusi in casa nell’incertezza per il futuro, non poter “lavorare” per quel futuro sarebbe stato inaccettabile.

Di certo per la fascia di allievi della mia classe (17/30 anni), la cosa che più è mancata è stata la condivisione con i propri coetanei, le serate con gli amici e anche far musica con altri allievi, oltre che esibirsi in pubblico (per quelli fra loro che avevano già iniziato a farlo).

La paura più grande era l’incertezza, non sapere quando tutto questo sarebbe finito, non poter fare progetti, abituati come siamo a vivere proiettati nel futuro e incapaci di vivere davvero il presente.

La pandemia ci ha messo di fronte alla nostra fragilità: noi nati nella parte ricca del Mondo, dove si può essere curati per malattie che ingiustamente nei Paesi più poveri uccidono tante persone anche in tenera età, improvvisamente scopriamo che ciò che accade nel Terzo Mondo può accadere anche da noi, che siamo inermi e senza nessuna cura di fronte a un nemico minuscolo, ma terribile.

Noi abituati ad avere diritti garantiti per legge, diritti negati a tutti quei disperati che spesso trovano la morte nel viaggio disperato per assicurare a se stessi e ai propri figli un futuro, siamo stati rinchiusi in casa, costretti a smettere di lavorare, fino a data da destinarsi. Credo che se volta in positivo questa sia una grande lezione per i giovani.

Certo se gli insegniamo solo a piangersi addosso, questa esperienza li renderà e ci renderà peggiori, non migliori.

Mirella Castigli: Il lungo, pur necessario, lockdown potrebbe portare i ragazzi più fragili sulla pericolosissima strada degli Hikikomori giapponesi (ragazzi che si chiudono nelle camerette per vivere solo attraverso Avatar e videogiochi) e quindi potrebbe avere un impatto su depressione ed ansia che alla lunga possono condurre alla dipendenze. La musica può essere un antidoto?

Manuela Bisceglie: La musica richiede molto studio, pazienza, abnegazione, disciplina, quindi, un po’ come lo sport, può aiutare anche psicologicamente persone più fragili, migliorandone anche l’autostima (che spesso è alla base di molti disturbi) ma non è una cura e nemmeno un antidoto.

Se un adolescente o un adulto ha problemi psicologici, la musica aiuta solo se inserita in un programma di recupero e sostegno psicologico.

Quanto al rischio che il lockdown contribuisca alla sindrome Hikkomori, questo disturbo è nato ben prima della pandemia, come rifiuto (ovviamente semplificando) e paura della società, forse troppo competitiva e per la quale si prova un senso di inadeguatezza che appunto nel “ritirarsi dentro” si placa.

Non escludo che il lockdown forzato, in persone già predisposte, possa determinare un aumento di rischio, per questo famiglia ed educatori sono chiamati ad un compito ancora più impegnativo e necessitano forse di formazione adeguata per individuare i ragazzi più a rischio e intervenire correttamente, sostenendoli alle prime manifestazioni di disturbi ansiosi.

Non credo che la didattica online costituisca un fattore ulteriore di rischio, al posto di tanti genitori mi sarei preoccupata – e avrei lanciato un grido d’allarme – più per le ore trascorse dai figli davanti a videogiochi, challenge sui social o Internet.

Nella DAD il Pc è un mezzo per interagire con esseri umani in carne ed ossa, educatori, i quali, se sono capaci, oltre a veicolare nozioni, dovrebbero insegnare valori e condividere stati emozionali.

La DAD non è una realtà virtuale in cui si interagisce con una macchina, un software o, nella peggiore delle ipotesi, con criminali che manipolano gli adolescenti.

Ciò che ho notato, sia da madre di un bimbo in età di scuola primaria sia da docente, è che il lockdown forzato ha invece, nella maggior parte dei casi, ottenuto l’effetto di far desiderare ancor di più di uscire di casa e stare con gli amici, e quindi di apprezzare quella libertà troppo spesso data per scontata.

Mirella Castigli: Anni fa Google condusse un sondaggio interno scoprendo le Soft Skills (empatia, considerazione per i dipendenti come individui con valori e punti di vista eccetera) – e non solo le STEM (science, technology, Engineering and Mathematics) – distinguevano gli alti dirigenti dal resto del personale. Oggi la gentilezza è uno stile di vita, spiega Esther Wojcicki nel suo metodo per crescere figli indipendenti e felici (“Bambini che cambiano il mondo”, Sperling & Kupfer). La pandemia ci ha insegnato che tutti siamo interconnessi e che finita l’era della concorrenza spietata, dal momento che i lavori del futuro post-Covid saranno basati sulla collaboration, l’attitudine a lavorare in team e a essere cooperativi: davvero l’empatia è rivoluzionaria anche in DAD?

Manuela Bisceglie: L’empatia è fondamentale per un insegnante e non solo per una DAD efficace, ma anche per l’insegnamento in presenza, perché se non sei empatico sarai un pessimo insegnante, anche se sei presente in classe:

L’empatia, unita all’amore per il proprio lavoro, rende capaci di trovare i modi efficaci per insegnare, sia questo insegnamento “in presenza” o “a distanza”, risvegliando la curiosità e quel bambino desideroso di scoprire che dimora in ogni giovane adulto.

Manuela Bisceglie [https://www.consmilano.it/it/didattica/docenti?cm_p=559] nasce nel 1980 a Matera; a 17 anni intraprende lo studio del Canto lirico presso il Conservatorio della sua città e nel frattempo frequenta l’ultimo anno del Liceo Scientifico.
Dopo i primi due anni di Economia e commercio ho mollato gli studi per dedicarsi alla sua passione per il canto e il teatro. Sono arrivati presto i primi debutti in teatro che le hanno fatto capire che quella era la sua strada, almeno fino a quando, 17 anni dopo, con l’arrivo del suo primogenito, ha preferito dedicarsi per un po’ alla mia famiglia: la carriera lirica che aveva intrapreso non le avrebbe consentito di avere molto tempo da trascorrere con i suoi figli, a causa dei lunghi periodi di lavoro per l’allestimento delle opere all’estero o in altre città.
In parallelo all’attività artistica ha iniziato a insegnare Canto in Conservatorio, scoprendo nell’insegnamento un’altra grande passione.

Intervista di Mirella Castigli