Avrei potuto iniziare il mio saggio descrivendo gli effetti negativi degli smartphone, andando oltre il problema della dipendenza, ma soffermandomi sui danni che un uso acritico dell’information tecnology ha su vari aspetti del nostro vivere: sviluppo fisico, emotivo, mentale e sociale.

Dopo più di dieci anni dall’entrata in scena dei dispositivi mobile, numerosi studi hanno evidenziato una serie di criticità che l’utilizzo da “autodidatta” e senza regole può portare: miopia, ansia e depressione, disturbi dell’attenzione e del sonno, sedentarietà, sovrappeso, danni alla postura, diabete, pressione alta, diminuzione dell’empatia ed aumento dell’aggressività.

Per trattare in profondità tutti questi argomenti sarebbero serviti una serie di volumi e tanti diversi professionisti per affrontare temi così delicati in maniera esaustiva e puntuale. Oltre a questi aspetti, la visione proposta avrebbe fatto emergere in maniera preponderante solo gli aspetti negativi (che comunque ci sono) dello strumento.

Ho scelto invece di trattare l’argomento in un modo più laico, cercando di spiegare il fenomeno a cui stiamo assistendo in termini sociologici, offrendo al lettore una serie di chiavi per poter aprire porte finora rimaste chiuse, con la speranza di dare un piccolo contributo alla decodifica di questa epoca e soprattutto facilitare la comunicazione tra tribù diverse, che spesso non riescono ad entrare in contatto.

La diffusione degli smartphone segna un profondo cambiamento nel rapporto tra utenti e tecnologia.

Nell’intera storia dell’umanità ogni innovazione, anche la più grandiosa occupava uno spazio e un tempo delimitato. Gli smartphone superano questi limiti e il primo strumento inventato dall’uomo che vive con noi, ci accompagna nella nostra quotidianità, ci informa, ci intrattiene, ci mette in connessione con gli altri 24 ore su 24.

Per questo motivo dal 2007 hanno saputo ritagliarsi un ruolo fondamentale nella vita di miliardi di persone e possono pertanto influenzare enormemente il loro benessere, nel bene e nel male.

Per inquadrare meglio la situazione dobbiamo comprendere che questa rivoluzione ha sì degli effetti, ma che hanno connotazioni e sviluppi diversi in base alle generazioni e all’età dei soggetti travolti da questo tsunami digitale.

Partiamo da una profonda separazione tra chi è nato e cresciuto in un mondo dove Internet è sempre esistito dove gli schermi interattivi sono la norma e non l’eccezione (i cosiddetti nativi digitali) e chi avverte la necessità pre-digitale di effettuare percorsi di ragionamento e di accumulazione di dati in maniera lineare (i cosiddetti immigrati digitali).

Questo primo tema ci fa capire che siamo davanti ad una metamorfosi del genere umano, dettata dalla necessità di sviluppare competenze funzionali alle nuove tecnologie e alla liquidità del vivere.

Stiamo vivendo un cambiamento sociale iniziato i primi anni del nuovo millennio e che si completerà tra meno di vent’anni, momento in cui, il ruolo dei genitori sarà ricoperto dai nativi digitali e a quel punto i valori analogici potrebbero rischiare l’estinzione.

Trovo indispensabile da parte di chi ricopre oggi il ruolo di genitore uno slancio per far sì che la trasmissione di tanti valori presenti nella società pre-digitale possano continuare ad esistere anche in futuro, per fare ciò è indispensabile il dialogo, imparare la lingua dei nostri figli, rafforzare le relazioni familiari è ricoprire pienamente il ruolo di genitori, consapevoli delle difficoltà intrinseche legate al mondo sempre più iperconnesso.

Finora dai miei studi sul campo, ho potuto individuare tre tipologie di genitori/immigrati, ognuno con una suo approccio abbastanza definito rispetto alle trasformazioni digitali:

  1. Immigrati rinchiusi nell’enclave analogica, tendono a disinteressarsi di tutto ciò che è definito nuovo, posseggono scarse conoscenze informatiche che rendendo difficile una qualsiasi forma di confronto con i propri figli.
  2. Immigrati digitali entusiasti, si tuffano nel digitale (rischiando a volte di annegare), con uno spirito proiettato alla scoperta, desiderosi di imparare con e dai propri figli. Questi ultimi non sempre li assecondano forti di un maggiore Know-how, che li mette in una posizione di vantaggio.
  3. Immigrati digitali integrati, inseriti nel nuovo contesto, utilizzano da diverso tempo i nuovi strumenti e hanno fuso le conoscenze analogiche e digitali. Sono percepiti come figure autorevoli in materia con cui confrontarsi e condividere il nuovo mondo.

Questa categorizzazione ci fa dire che siamo ancora lontani dalla soluzione al problema, ma nello stesso tempo dovrebbe servire da monito a chi si rivede nei primi due raggruppamenti, è ora di integrarsi!

Per le nuove generazioni non essere sui social rappresenta uno svantaggio, buona parte della socialità passa da questi canali, ma anche offerte di lavoro, inviti a iniziative culturali, ecc spesso arrivano proprio da qui. Dai social e dal web transita inoltre gran parte del dibattito pubblico e la possibilità di prendervi parte, che è un elemento fondamentale della partecipazione sociale: al giorno d’oggi.

I social network sono un bisogno, anzi rispondono a più bisogni.

Pensate alla piramide dei bisogni di Maslow alla base ci sono le esigenze fisiologiche, i bisogni primari come mangiare e dormire, subito dopo troviamo altri bisogni legati alla socialità e all’autorealizzazione. Questi ultimi sono soddisfatti, al giorno d’oggi, dai social.

Giuseppe Riva argomenta questa tesi:

«I social network possono aiutare i propri utenti a soddisfare le seguenti categorie di bisogni. Bisogni di sicurezza: nel social network le persone con cui comunico sono solo amici e non estranei. Posso scegliere chi è un amico, controllare che cosa racconta di sé e commentarlo. Bisogni associativi: con questi amici posso comunicare e scambiare opinioni, risorse, applicazioni. Se voglio, posso perfino cercarci l’anima gemella. Bisogno di stima: io posso scegliere gli amici ma anche gli altri possono farlo. Per questo, se tanti mi hanno scelto come amico allora valgo. Bisogno di autorealizzazione: posso raccontare me stesso (dove sono e cosa faccio) come voglio e posso usare le mie competenze anche per aiutare qualcuno dei miei amici che mi ascolta».

I social sono stati definiti anche come un “lubrificante sociale”, espressione un tempo usata per l’alcol.

E’ quindi facile comprendere come è indispensabile conoscere i social network per poter contribuire alla crescita dei propri figli, visto che sono il luogo che li ospita per la maggior parte del tempo e che soddisfa un gran numero di bisogni e necessità.

Vi sottoporrò alcune riflessioni su due temi molto importanti l’apprendimento e la socialità, analizzando come la tecnologia stia modificando in maniera forse irreversibile alcuni meccanismi tanto cari alla società pre-digitale.

Negli ultimi dieci anni è stata dimostrata chiaramente la flessibilità del nostro cervello: è l’hardware biologico che si adatta continuamente al software di volta in volta «caricato» – ovvero: le nostre esperienze di vita.

Ciò che viviamo non è dunque indifferente, perché ogni attività mentale lascia tracce nel cervello e queste tracce ne influenzano il funzionamento successivo. Se il cervello non viene utilizzato, l’hardware neuronale viene smantellato. Potremmo dire che in sostanza il cervello è come un muscolo: se viene utilizzato, cresce, altrimenti si atrofizza.

Vi sono alcuni elementi, capacità e peculiarità che in realtà sono già andati perduti o stanno sfumando nel nostro tempo: in particolare la capacità di riflettere o la disponibilità a soffermarsi e, con esse, la capacità di astrarre e generalizzare.

Lo sviluppo delle capacità simboliche – che inizia con il gioco, con la costruzione di mondi fantastici e immaginari, con la fiaba, con le narrazioni dei genitori e dei nonni – è per i nativi digitali largamente penalizzato.

L’apprendimento che un tempo si realizzava attraverso la mediazione simbolica della letto-scrittura è stato in buona parte soppiantato dal touch screen, con il quale non si deve fantasticare o ipotizzare molto; piuttosto, manipolare velocemente delle icone.

Questo sbilanciamento sul versante percettivo procede quando anche l’apprendimento scolastico si sposta dal libro e dall’insegnante al computer, come depositario alternativo del patrimonio del sapere.

Possiamo immaginare le nostre quotidiane attività di interazione con gli schermi (bancomat, telefoni touch screen, tablet) come la ratifica, tocco dopo tocco, dell’instaurarsi dell’era del dominio della percezione sull’immaginazione. Conoscere qualcosa attraverso un manuale d’uso, comprendendo il suo funzionamento, significa investire molto tempo, mentre provare e sbagliare alcune volte per poi “indovinare” i movimenti giusti sembra molto più economico.

Non si tratta quindi, solo di amnesia digitale, ma di un diverso modo di ragionare e richiamare alla mente i dati che uccide la logica umana in favore dell’algoritmo. In un mondo che ragiona per parole chiave e in cui il lavoro di archiviazione che dovrebbe fare, o meglio che prima svolgeva prevalentemente il nostro cervello, viene eseguito da motori di ricerca, è forse più utile tenere a mente il modo in cui ritrovare un’informazione dell’informazione di per sé.

Chi non conosce nulla di un determinato argomento non farà progressi usando Google. Chi invece sa già molto, può procurarsi altre fonti sulle informazioni più recenti e più dettagliate di cui ancora non disponeva su un dato argomento. Tale preconoscenza funge da filtro che permette di individuare tra i risultati del motore di ricerca quelli importanti e mirati.

Se le capacità di apprendimento sono il nostro biglietto d’ingresso nel mondo dell’istruzione, le nostre competenze sociali sono la premessa per una convivenza riuscita – privata, lavorativa e sociale – e dunque per una vita completa.

I nativi digitali non sono particolarmente disinvolti nella relazione face-to-face, ma calzano come un guanto i loro profili digitali, e, infine, sono in grado di vivere su due registri cognitivi e socio-emotivi, quello reale e quello virtuale, che si intrecciano nella loro quotidianità.

Passare da un mondo all’altro, da un contesto all’altro riduce nel soggetto in età dello sviluppo la capacità di prestare attenzione in modo continuativo e, con essa, viene meno anche il correlato psicologico dello star fermi, dell’attendere: la  pazienza.

Quando le persone passano del tempo insieme, interagiscono, condividono esperienze, pensieri e sentimenti, tutto ciò che accade senza mediazione, ossia uno scambio diretto. Comprendiamo le emozioni dell’altro dal tono di voce, dall’espressione del volto, dalla gestualità e a volte anche dall’odore che ha.

L’empatia s’impara proprio come s’impara a camminare e parlare.

Le competenze sociali richiedono esercizio, si tratta di «metterle in scena», questi ragazzi corrono un maggior rischio di commettere errori nei momenti piú importanti: nei colloqui all’università, nei tentativi di fare amicizia alle superiori, quando si è in lizza per un posto di lavoro.

Le decisioni sociali cruciali si prendono ancora principalmente di persona e i nativi digitali non hanno molte esperienze di situazioni simili.

Nel prossimo decennio, citando Jean M. Twenge, potremmo ritrovarci con piú giovani che conoscono l’emoji giusto… ma non la giusta espressione del volto.

Altro aspetto molto importante del vivere situazioni dal vivo risiede nel valore del confronto. Le idee migliori e i progressi più rilevanti che sperimentiamo nelle nostre vite partono quasi sempre da un’esperienza di confronto con qualcosa o qualcuno diverso da noi, che ci costringe a riformulare, migliorandola, la nostra visione del mondo.

Qualcuno potrebbe sostenere che anche tramite i social network è possibile avviare discussioni, dialoghi con persone fisicamente lontane che potrebbero garantire un confronto ancora più stimolante.

Tutto vero, l’unico problema in cui si può incorrere risiede nel fatto che la contro-parte non sempre la scegliamo noi, mi riferisco alla radicale disintermediazione che i social permettono: non ci sono ruoli che schermano, non esistono posizioni che filtrano, ognuno può raggiungere l’altro con le sue parole, non conta che siano opportune e pertinenti, competenti, educate o meno.

L’interconnessione ci ha reso tutti più vicini, ma non ci ha dato automaticamente dei buoni vicini.

Trovandoci – specialmente gli adolescenti, forse – con un cervello tanto sensibile all’esclusione sociale, messaggini e social media sono terreno fertile per le emozioni negative.

Anche quando tutto va bene, la cadenza della comunicazione elettronica può essere problematica: si verifica spesso un ritardo della risposta, cosa che non avviene quando si comunica faccia a faccia.

Provate a pensare a quello che succede quando mandate un messaggio. Se il destinatario non risponde immediatamente, forse vi chiederete perché. È arrabbiato? Non gli è piaciuto quello che ho scritto? Accade lo stesso quando si pubblica qualcosa su un social: tutti vogliono vedere i like, e se impiegano troppo tempo ad arrivare o non arrivano affatto, può subentrare l’ansia.

I social media potrebbero avere un ruolo nell’insorgere di sentimenti di inadeguatezza: tanti pubblicano in rete soltanto i loro successi, se trascorressero piú tempo con gli amici in carne e ossa, forse capirebbero di non essere i soli a commettere errori.

Ancora una volta è la mancata consapevolezza dei meccanismi di funzionamento dell’universo generale a generare una discrepanza tra ciò che percepiamo come reale e ciò che lo è davvero, e il superamento di questa discrasia non può che passare attraverso la citata consapevolezza che deriva dalla conoscenza della Rete e dei meccanismi che regolano le relazioni digitali.

A che età è giusto dare il primo smartphone? Quante ore dovrebbe passare mia/o figlia/o online? Come posso fare a proteggerla/o? Sono le domande più comuni durante seminari e gli incontri con i genitori.

Domande dirette che bramerebbero una risposta illuminante in questo cammino oscuro, possibilmente senza “se” e “dipende”, o distingui di alcun genere. Purtroppo è difficile soddisfare tali aspettative, in primis perché stiamo parlando di esseri umani, dotati di un cervello autonomo che non può essere programmato a nostro piacimento, inoltre questi bipedi vivono in comunità, che influenzano costantemente i loro atteggiamenti e comportamenti, quindi sta a noi genitori, educatori e professionisti trovare risposte ad personam. Il centro della questione è come educhiamo e ci educhiamo a stare in rete?

Qui si apre il grande tema dell’educazione tramite l’esempio. Se il web è un luogo di relazioni e non un semplice mezzo, è come la vita: non si educa a vivere bene solo a parole, o a colpi di regole; serve soprattutto l’esempio.

La potremmo chiamare socializzazione digitale, che può essere fatta in questo momento storico solamente attraverso un patto tra le generazioni. E, come in tutti i patti, ognuno deve offrire qualcosa: le generazioni più recenti potranno portare la loro disinvoltura nell’iperconnesione, mentre le precedenti potranno offrire il loro bagaglio esperienziale in materia di relazioni umane. Entrambe in questo incontro otterranno un effetto umanizzante: questa nostra vita digitale comincerà a fare meno paura alle generazioni più vecchie e inizierà a riempirsi di significati inaspettati per quelle più giovani. Per entrambe sarà la scoperta di un’autorevolezza reciproca dal cui riconoscimento potranno scaturire soddisfazioni e possibilità di felicità in questa vita così complessa.

Durante i vari incontri ho sostenuto che occorre superare tre prospettive inerziali:

  1. Il primo passo è partire dal fatto che il web non è il futuro, ma è già qui:
    siamo esseri umani definitivamente connessi, tutta la tecnologia che ha pervaso le nostre vite non può essere definita semplicemente con il temine di “novità”.
    Secondo l’efficace espressione di Luciano Floridi viviamo in una condizione da lui definita onlife, non c’è niente di nuovo all’orizzonte, quanto piuttosto un routinario presente di cui occuparsi e un ritardo educativo da recuperare al più presto.
  2. Il secondo passaggio riguarda il non rifugiarsi dietro strumenti giuridici o ricette preconfezionate, con la speranza che ci diano uno schema e salvaguardino il popolo di internet.
    Occorre dedicarsi a costruire percorsi che diano significato al nostro agire nella dimensione online, che contemplino una spinta alla vita piena, alla ricerca di senso e di soddisfazione così come facciamo negli aspetti offline della nostra vita.
  3. L’ultimo passaggio forse il più duro per genitori, insegnanti e addetti ai lavori: conoscere la rete, frequentarla, essere presenti, capirne le dinamiche. Mettersi nelle condizioni di vivere le stesse problematiche di chi in rete ci sta. Non si tratta degli aspetti tecnici/tecnologici, ma di quelli umani.

Conoscere il web infatti non significa diventare programmatori, ma accorgersi e valutare che le interazioni che avvengono online, per quanto digitali e mediate, sono altrettanto reali di quelle fisiche.

Ho deciso di intitolare questo saggio sull’orlo del naufragio cognitivo e sociale, con il fine ultimo di trasmettere il senso di possibile non ritorno, vedere la fine a volte stimola la reazione, invertire l’ordine delle cose ribellandosi a ciò che sembra inevitabile.

Questa impresa può essere vinta solo dal basso, troppi sono gli interessi che orbitano intorno alla tecnologia e agli smartphone nostri inseparabili e (in)fedeli compagni di viaggio, occorre una pandemia virtuosa che possa realmente farci accorgere di quanto tempo stiamo sottraendo alla nostra vita.

Bibliografia:

  1. Gianluigi Bonanomi, Fiorenzo Pilla, Prontuario per genitori digitali, Ledizioni, Milano, 2018
  2. Tonino Cantelmi, Tecnoliquidità, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2013
  3. Giuseppe Riva, Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media, Il Mulino, Milano, 2019
  4. Manfred Spitzer, Emergenza Smartphone, Milano, Corbaccio, 2019
  5. Jean M. Twenge, Iperconnessi, Einaudi, Torino, 2017